Ricordi, venite ad accarezzarmi su lievi brezze accompagnate dalla frescura di una primavera ritardataria. Vi rivedo nei volti felici degli amici, in qualche bacio rubato in un cortile deserto, quando le notti d’Aprile s’aprivano in una coperta di stelle, vi assaporo sulla mia pelle, quei pomeriggi di festa di cicalecci nell’afa soffocante e lacrime di sudore sulla pelle. Ricordo quando volgevamo gli occhi al cielo, con la gola riarsa osservavamo le nubi rincorrersi, in silenzio attendevamo le gocce del cielo. Temporali estivi, nelle calde serate di giugno portavate una domandata frescura, voi, andavate lontani trascinandovi appresso nuvole stanche tra cui filtravano gli umidi raggi del tramonto. Dai ripari improvvisati, dai portici polverosi ridevamo calpestando gli arcobaleni delle pozzanghere e la terra che già aveva assorbito gli ultimi rivoli d’acqua.
Ricordi, perché mi condannate? M’inseguite rammentandomi le occasioni perdute, i momenti senz’anima, i pensieri oscuri montanti come gelida marea.
Pensieri, fantasie, mi rammentate il calore del deserto e i momenti persi a contemplar bellezze oltre i gelidi cristalli dell’attesa.
Primavera
Archiviato in Uncategorized
La parola ad altri: Stephane Mallarmé, Brezza marina
La carne è triste, ahimé! e ho letto tutti i libri.
Fuggire! Laggiù fuggire! Io sento gli uccelli ebbri
d’essere tra l’ignota schiuma e i cieli!
Niente, né antichi giardini riflessi dagli occhi
terrà questo cuore che già si bagna nel mare
o notti! né il cerchio deserto della mia lampada
sul vuoto foglio difeso dal suo candore
né giovane donna che allatta il suo bambino.
Io partirò! Vascello che dondoli l’alberatura
l’àncora sciogli per una natura straniera!
E crede una Noia, tradita da speranze crudeli
ancora nell’ultimo addio dei fazzoletti!
E gli alberi, forse, richiamo dei temporali
son quelli che un vento inclina sopra i naufragi
sperduti, né antenne, né antenne, né verdi isolotti…
Ma ascolta, o mio cuore, il canto dei marinai!
Archiviato in Uncategorized
Frammenti di vita: dialoghi e parole
“Il linguaggio ci costringe all’interno di semplici etichette”
“Cioè?”
“Non so, se ti dico: io non credo in un dio, puoi chiamarmi agnostico. Tu come mi definiresti?”
“Uno che non si esprime”
“E la frase uno che non si esprime che significato ha?”
“E’ uno che davanti al dubbio preferisce tacere”
“E’ passivo, quindi?”
“Sì, passivo davanti al dubbio”
“Quindi, nel momento in cui dico sono agnostico tu mi ritieni uno passivo?”
“Sì.. cioè, no. Non credo, non te”
“E chiunque altro sì?”
“Sì, credo di sì”
“Molto bene. Quindi apponi un’etichetta per la semplice parola, apponi una definizione intera per una semplice espressione. Eppure ciò che è agnostico per te magari non lo è per l’altro. Tu credi?”
“In dio?”
“Nel dio padre, in suo figlio reincarnato, eccetera”
“Credo di sì”
“Credi di sì?”
“Non ne sono certo. E tu?”
“No, non in quello”
“E in quale allora?”
“Sono alla ricerca. Guardati intorno: chi è più in cerca oramai? Confondiamo la bellezza col potere, la grandezza col possesso. Troppo spesso non ci accorgiamo di ciò che abbiamo intorno”
“E cosa abbiamo intorno?”
“Tutto. Guarda: l’infinito dell’orizzonte marino, non puoi forse paragonarlo all’infinito di dio, d’un qualunque dio? E la bellezza delle stagioni, il loro ripetersi, il loro eterno ritorno, non lo consideri la resurrezione più grande a cui possiamo assistere? E forse l’uomo, l’uomo, non è egli già qualcosa di bello e spirituale? Credo nell’uomo, credo in ciò che ho intorno, credo in ciò che sento e provo ammirando i raggi morenti del sole”
Archiviato in Uncategorized
Attraverso gli occhi di altri: Gide
Alla fine sto leggendo Gide. Erano anni che me lo promettevo, rimandavo, attendevo tempi migliori, me ne scordavo. Ma questo sabato, passeggiando nei corridoi della libreria, la sua copertina rossa m’ha colpito, affascinato, ed eccomi qua a considerarlo uno dei miei autori preferiti. Non si può descrivere. Come direbbe lui, vi fu un tempo in cui la mia gioia divenne così grande che la volli comunicare. Volli insegnare a qualcuno ciò che in me la faceva vivere, così riscrivo di seguito un breve estratto.
Odiavo la lassitudine, che sapevo fatta di noia, e pretendevo che si contasse sulla diversità delle cose. Mi riposavo in qualunque luogo. Ho dormito nei campi. Ho dormito nelle pianure. Ho visto l’alba fremere tra i covoni del grano; e sulle faggete svegliarsi la cornacchia. La mattina mi lavavo nell’erba e il sole nascente asciugava i miei abiti bagnati.
Forse non ti comunica nulla, forse ho sbagliato tutto. Non importa, questo ho letto stamane, questo volevo scriverti.
Perché affianchiamo sempre i violini ai colori tenui delle foglie d’autunno? Forse perché ci piace guardarle cadere, vorticare tra spazi erbosi trasportate dai primi venti invernali, e ci piace immaginare il suono delicato dei violini accompagnarle nel silenzio. Forse guardiamo la fine attraverso le foglie, l’inevitabile orizzonte di ponente dove il sole della vita lentamente s’inclina, e ascoltiamo i violini, lenti, tenerci per mano. O forse è guardare in silenzio il mondo d’intorno, perdersi e naufragare in pensieri mutevoli, scossi e raccolti, mossi e sollevati dai venti della nostra fantasia. Non so perché scrivo di foglie e violini. Forse perché qualcuno ne parlò, forse perchè non ho altro da scrivere. Ma del resto, che altro c’è da scrivere?
Archiviato in Uncategorized
Vagando tra scaffali colmi di libri
“Certo, davanti a questi libri..”
“Che accade?”
“Mi sento ignorante: quanti me ne mancano? Quanti ancora non ho scorto?”
“E’ un bene questo, lo sai”
“Un bene?”
“Certo: se li avessi letti tutti, la vita sarebbe assai più noiosa”
“Ma la mia curiosità è sempre più forte”
“Curiosità: nessuna cura è migliore all’apatia”
“Ti piacerebbe entrare tra questi scaffali? Leggervi il tuo nome?”
“Certamente”
“Magari tra libri di poesia, scritti di lunghe prose o funesti pensieri o magari di romanzi avventurosi o di sacri ricordi di giovinezza.. ma la poesia..”
“Impossibile”
“Perché?”
“Troppo costruita oramai”
“La poesia?”
“La poesia, sì”
“La poesia? La poesia è libera, è espressione senza vincoli, è linguaggio senza struttura!”
“Così pensi tu”
“Forse non sei d’accordo?”
“No”
“No?”
“No. La parola d’ordine è stupire, mostrare abilità e conoscenza, non emozionare. Non più, almeno”
“La poesia non ti emoziona?”
“A volte”
“E questa non ti emoziona più?”
“E’ delle immagini più semplici, più fresche che nutro la mia anima di emozioni. I flussi metafisici, le danze retoriche, le piroette sintattiche non le apprezzo. Amo il fruscio degli alberi, non quanti sinonimi li descrivono; amo il mare, le sue spume, il suo fragore carico di salsedine, non le vuote parole dei tramonti e degli orizzonti infuocati. Non c’è nulla di più semplice dell’emozione, nulla che di più noi tutti rendiamo complesso”
Archiviato in Uncategorized
Lettere politiche, terzo capitolo: una breve storia
Ti racconto una storia. Cercherò di essere breve, possibilmente interessante. E’ una storia di morte, di guerra e di denaro. E’ una storia di corruzione, è una storia di mafia, di menzogne e di eroi. Siamo nel 1945, 25 aprile. L’Italia viene liberata dalle forze nazi-fasciste e si prepara al riscatto; il Bel Paese, la nostra penisola, rialza la testa e si prepara al cambiamento. Mi viene in mente il film “Mediterraneo”: Abatantuono torna in Grecia da dove era partito per fare il partigiano nel 1943 e col volto stanco e deluso dice qualcosa come “Volevamo cambiare le cose, ci siamo accorti che non abbiamo cambiato nulla”. Gli storici la chiamano continuità dello Stato; è un fenomeno strano, italiano: un regime finisce, si dissolve, ma le sue strutture e i suoi schemi, invece di venire epurati, permangono. Motivo? Le elezioni che si avvicinano, i partiti che vogliono i voti da rastrellare nel sistema pubblico e amministrativo dello Stato. Perché epurare? Chiudiamo un occhio, domani è un altro giorno e ci ritroviamo di nuovo tutti eguali.
La gioia e l’euforia degli anni ’50 e ’60 ci nascondono la realtà. L’Italia cresce, ma molte riforme che dovevano essere portate avanti si perdono nei meandri della politica e delle vacue parole. E come si suol dire, tutti i nodi vengono al pettine. Il terrorismo, la spesa pubblica, le stragi e la mafia. Problemi spinosi, problemi che richiedono palle, sacrificio e, talvolta, il tanto temuto suicidio politico. Non si può piacere a tutti: se si decide per il Paese, qualcuno sarà sempre scontento. Ma se si vuole cambiare, l’unico vero cambiamento è capire che perdere la propria poltrona è il vero sacrificio che il politico deve fare per portare avanti un ideale.
Giunge Tangentopoli, i partiti svaniscono, rimangono le stesse persone, avvoltoi delle macerie della Prima Repubblica. Nessuno si è mai chiesto perchè ad alcuni è stato permesso di perdurare nonostante fossero conniventi d’un sistema? Ora ce lo chiederemo tutti, perchè, come ho già detto, tutti i nodi vengono al pettine. Da vent’anni abbiamo in sella un avventuriero, un imprenditore, un uomo di milano, uno di quelli che “va a laurà” e che a sgomitate riesce a diventare qualcuno. Siamo caduti in basso, davvero in basso. Neanche un tempo volavamo laddove le aquile osservano i nostri umani destini, ma adesso che abbiam toccato terra abbiamo iniziato a scavare senza sosta. Non ci accontentiamo noi.
Del resto basta qualche donna svestita, qualche programma demenziale e telegiornali e giornali asserviti per renderci contenti. Il sale della vita è quello: una scatoletta luminosa che ci dice come comportarci, quali modelli seguire, che tipo di società vogliamo. Disgustoso. Sai cos’è? Tutti noi, solo noi siamo i colpevoli. Noi che ci lasciamo abbindolare come una bimbetta dal pedofilo con la caramella, lasciamo che stuprino la nostra immaginazione, la nostra fantasia, che usino i nostri ideali come bersaglio d’insulti vomitati in modo talmente subdolo che noi ne ridiamo. Apriamo gli occhi, vi prego, apriamoli! La mia non è più una battaglia, né una protesta, né un solida argomentazione politica. La mia è una preghiera. E la preghiera dice semplicemente: “Rialziamo la testa prima di appiattirci sull’ultimo gradino della scala evolutiva dell’uomo occidentale: l’assuefazione”.
Archiviato in Uncategorized
Il sognatore, chi era costui?
Tutti i disillusi si somigliano tra loro, tutti i sognatori sono sognatori a modo loro. Ma dai, ma chi vuoi prendere in giro? Definirsi sognatore è facile, basta scriverlo, dirlo. Basta pronunciare quelle quattro sillabe, essere un po’.. come dire?.. eccentrico, magari un po’ folle, leggere qualche poesia al chiaro di luna è il gioco è fatto. Sognatore. Una bella parola per un buon salotto, una bella definizione per chi si sente fuori. Ma fuori da cosa? Ti guardi intorno e sai che più dentro di te non c’è nessuno. Vuoi essere il diverso e così ti conformi alla diversità. Non c’è via d’uscita.
Mi capita spesso di sognare ad occhi aperti. Immaginare, più che sognare. Credo d’aver sempre avuto una fantasia abbastanza fervida, e non in senso buono. Il problema è l’aver letto troppi libri. Pochi Balzac, troppi Dumas e così fin da piccolo mi ritrovavo a muovere spade invisibili nell’aria immaginando quali versi eroici sarebbero saltati fuori dalle piroette che inscenavo nel mio giardino. Sveglia adesso, presto dovrai lavorare, prender casa, pagare le bollette. Già. Sorrido perchè non riesco ad immaginare un uomo, una donna, un ragazzo o una ragazza che non sogna ad occhi aperti. Solamente nessuno lo dice. E così crediamo tutti di essere unici, perché il vicino, no lui no, lui non sogna ad occhi aperti. Ne siete certi. E’ sempre lì che parla di cose assai concrete, lo senti ogni giorno. Lo studio, la carriera, qualche serata con gli amici. E così ve ne convincete: nessuno sogna. Sognare. Ma che significa sognare? Credo ognuno abbia il suo modo, ma chi sono io per ficcar naso nelle faccende altrui? Te lo immagini il mio vicino che si volta e mi grida: “Ehi tu! Levati dal mio sogno!” e se ne va irritato? No, io no. Be, ognuno ha un sogno, non sono certo il primo a dirlo né sarò l’ultimo. Volevo solo dirlo, così, per ricordarlo almeno a me stesso. Che dire? Perdona monologhi troppo stupidi per essere pronunciati.
Archiviato in Uncategorized
Prima pioggia d’Aprile
Quando sta per piovere lo senti, te ne accorgi. Gusti sulla punta del palato il profumo dell’aria densa d’umidità. Attendi. Quando il cielo diviene grigio come le nostre città, capisci che acqua scrosciante sta per ticchettare sui nostri vetri. Passa il vento con una dolce carezza e chiudi gli occhi. Gli steli d’erba gioiscono frusciando, li puoi ascoltare. I primi boccioli primaverili si schiudono sorridenti, le prime gocce cadono lente, quasi non avessero fretta. Tloc, sulla terra asciutta. Tloc, sulle prime foglie verdi d’Aprile. Tloc, sui vetri. Entri in macchina, vuoi guidare sotto la pioggia. Sì, puoi farlo. Vai lento, osservi i pochi passanti guardare in alto e mormorare: “Toh, è il cielo quello!” per osservare poi in silenzio le nuvole cariche. Alcuni corrono a casa, pochi si fermano in effetti. Hanno fretta. Vedi due fari davanti a te, poi l’auto sterza, non riconosci il conducente. Come potresti? Conosci così poche persone lungo la strada. Gli alberi si piegano, cantano coi loro ramoscelli scossi dalla brezza la venuta dell’acqua. Solo tu li guardi, pare uno spettacolo nuovo. Li osservi, rallenti, qualcuno ti avverte d’andare più svelto, chiedi scusa e acceleri. Le prime gocce aumentano, azioni i tergicristalli e ne ascolti il suono: ta tlak ta tlak. Vedi altri fari, qualcuno corre verso casa, tu non hai fretta. Sterzi ancora, percorri una strada che non prendevi da tanto tempo; non ha nulla di particolare: non la prendevi da tanto tempo. Torni verso casa, l’inconfondibile suono delle gomme sull’asfalto bagnato; sempre lo stesso, quel suono non cambia. Il vento aumenta, le fronde si piegano fruscianti e la pioggia scorre in lunghi rivoli sul tuo finestrino. Accosti, scendi, guardi il cielo. Hai freddo: non è ancora estate. Ma il tocco delle gocce è soffice, ti accarezza in silenzio, non dà spiegazioni del perchè lo fa. Il cielo s’incupisce, lo scroscio è violento. Torni a casa in silenzio gustando la prima pioggia d’Aprile.
Archiviato in Uncategorized
Frammenti di vita: un dialogo
“Ti vedo annoiato”
“Cosa vuoi? E’ la vita..”
“La vita?”
“Sì, la vita. Sai.. quel fluire monotono di attimi, quel perdersi del presente nel logoro album del passato?”
“So cos’è”
“Cosa?”
“La vita”
“Ah, sai cos’è.. E allora perchè me lo domandi?”
“Non capisco.. Dici di essere annoiato. E la vita, cosa c’entra?”
“E’ il problema”
“La vita?”
“Sì, la vita! Quante volte devo ripeterlo?”
“Ah, mi dispiace”
“Anche a me. Che vuoi farci? E’ la nostra condanna”
“La vita?”
“No. Pensarci”
“Pensarci?”
“Sì, il pensiero”
“Ah, cioè?”
“Ma sì, sai quel lento migrar d’immagini e parole..”
“Il pensiero?”
“Esattamente”
“Perchè dici la nostra condanna?”
“Beato l’ottuso animale che non prova dolore”
“Come?”
“Baudelaire”
“Il poeta?”
“Il poeta”
“Il pensiero porta infelicità?”
“No, ma allontana dalla felicità”
Archiviato in Uncategorized
Lettere politiche, capitolo secondo
C’è una frase del Foscolo che mi colpisce, Ultime lettere di Jacopo Ortis. Sono le prime righe: sono troppo pigro per andarne a cercare un’altra all’interno del libro (non pensare che non l’abbia letto; è solo che si tratta della prima frase che mi è capitata sott’occhio). “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, se pure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.”. E’ il momento in cui Jacopo Ortis fugge sui Monti Euganei, subito dopo la pace di Campoformio (1797), e da lì inizia la sua lunga e struggente corrispondenza epistolare. Una frase azzeccata per tempi come questi.
La politica, come ogni altra attività, ha un prezzo. A volte quel prezzo è la vita, o la prigione; allora è eroismo. A volte quel prezzo è la propria coscienza, la propria anima. A volte è la semplice prostituzione intellettuale in cui si viene indotti. Ho sempre creduto che la politica non fosse altro che una gioiosa arena di discussione e dibattito, un ritrovo intellettuale in cui si cercano le soluzioni a problemi comuni o gli atti pratici a idee geniali. Povero illuso, dirai, e avresti ragione. Chi ancora crede in questo tipo di politica è un illuso. Non è colpa sua; l’importante è continuare ad esserlo. Folle di speranza nel cambiamento, non m’accorgo come vengono plagiati i miei pensieri in un’altra direzione. E resistere diviene l’unica parola saggia da dirsi dinnanzi allo specchio.
Archiviato in Uncategorized