Primavera

Ricordi, venite ad accarezzarmi su lievi brezze accompagnate dalla frescura di una primavera ritardataria. Vi rivedo nei volti felici degli amici, in qualche bacio rubato in un cortile deserto, quando le notti d’Aprile s’aprivano in una coperta di stelle, vi assaporo sulla mia pelle, quei pomeriggi di festa di cicalecci nell’afa soffocante e lacrime di sudore sulla pelle. Ricordo quando volgevamo gli occhi al cielo, con la gola riarsa osservavamo le nubi rincorrersi, in silenzio attendevamo le gocce del cielo. Temporali estivi, nelle calde serate di giugno portavate una domandata frescura, voi, andavate lontani trascinandovi appresso nuvole stanche tra cui filtravano gli umidi raggi del tramonto. Dai ripari improvvisati, dai portici polverosi ridevamo calpestando gli arcobaleni delle pozzanghere e la terra che già aveva assorbito gli ultimi rivoli d’acqua.
Ricordi, perché mi condannate? M’inseguite rammentandomi le occasioni perdute, i momenti senz’anima, i pensieri oscuri montanti come gelida marea.
Pensieri, fantasie, mi rammentate il calore del deserto e i momenti persi a contemplar bellezze oltre i gelidi cristalli dell’attesa.

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La parola ad altri: Stephane Mallarmé, Brezza marina

La carne è triste, ahimé! e ho letto tutti i libri.
Fuggire! Laggiù fuggire! Io sento gli uccelli ebbri
d’essere tra l’ignota schiuma e i cieli!
Niente, né antichi giardini riflessi dagli occhi
terrà questo cuore che già si bagna nel mare
o notti! né il cerchio deserto della mia lampada
sul vuoto foglio difeso dal suo candore
né giovane donna che allatta il suo bambino.
Io partirò! Vascello che dondoli l’alberatura
l’àncora sciogli per una natura straniera!

E crede una Noia, tradita da speranze crudeli
ancora nell’ultimo addio dei fazzoletti!
E gli alberi, forse, richiamo dei temporali
son quelli che un vento inclina sopra i naufragi
sperduti, né antenne, né antenne, né verdi isolotti…
Ma ascolta, o mio cuore, il canto dei marinai!

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Attraverso gli occhi di altri: Gide

Alla fine sto leggendo Gide. Erano anni che me lo promettevo, rimandavo, attendevo tempi migliori, me ne scordavo. Ma questo sabato, passeggiando nei corridoi della libreria, la sua copertina rossa m’ha colpito, affascinato, ed eccomi qua a considerarlo uno dei miei autori preferiti. Non si può descrivere. Come direbbe lui, vi fu un tempo in cui la mia gioia divenne così grande che la volli comunicare. Volli insegnare a qualcuno ciò che in me la faceva vivere, così riscrivo di seguito un breve estratto.
Odiavo la lassitudine, che sapevo fatta di noia, e pretendevo che si contasse sulla diversità delle cose. Mi riposavo in qualunque luogo. Ho dormito nei campi. Ho dormito nelle pianure. Ho visto l’alba fremere tra i covoni del grano; e sulle faggete svegliarsi la cornacchia. La mattina mi lavavo nell’erba e il sole nascente asciugava i miei abiti bagnati.
Forse non ti comunica nulla, forse ho sbagliato tutto. Non importa, questo ho letto stamane, questo volevo scriverti.
Perché affianchiamo sempre i violini ai colori tenui delle foglie d’autunno? Forse perché ci piace guardarle cadere, vorticare tra spazi erbosi trasportate dai primi venti invernali, e ci piace immaginare il suono delicato dei violini accompagnarle nel silenzio. Forse guardiamo la fine attraverso le foglie, l’inevitabile orizzonte di ponente dove il sole della vita lentamente s’inclina, e ascoltiamo i violini, lenti, tenerci per mano. O forse è guardare in silenzio il mondo d’intorno, perdersi e naufragare in pensieri mutevoli, scossi e raccolti, mossi e sollevati dai venti della nostra fantasia. Non so perché scrivo di foglie e violini. Forse perché qualcuno ne parlò, forse perchè non ho altro da scrivere. Ma del resto, che altro c’è da scrivere?

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Lettere politiche, terzo capitolo: una breve storia

Ti racconto una storia. Cercherò di essere breve, possibilmente interessante. E’ una storia di morte, di guerra e di denaro. E’ una storia di corruzione, è una storia di mafia, di menzogne e di eroi. Siamo nel 1945, 25 aprile. L’Italia viene liberata dalle forze nazi-fasciste e si prepara al riscatto; il Bel Paese, la nostra penisola, rialza la testa e si prepara al cambiamento. Mi viene in mente il film “Mediterraneo”: Abatantuono torna in Grecia da dove era partito per fare il partigiano nel 1943 e col volto stanco e deluso dice qualcosa come “Volevamo cambiare le cose, ci siamo accorti che non abbiamo cambiato nulla”. Gli storici la chiamano continuità dello Stato; è un fenomeno strano, italiano: un regime finisce, si dissolve, ma le sue strutture e i suoi schemi, invece di venire epurati, permangono. Motivo? Le elezioni che si avvicinano, i partiti che vogliono i voti da rastrellare nel sistema pubblico e amministrativo dello Stato. Perché epurare? Chiudiamo un occhio, domani è un altro giorno e ci ritroviamo di nuovo tutti eguali.
La gioia e l’euforia degli anni ’50 e ’60 ci nascondono la realtà. L’Italia cresce, ma molte riforme che dovevano essere portate avanti si perdono nei meandri della politica e delle vacue parole. E come si suol dire, tutti i nodi vengono al pettine. Il terrorismo, la spesa pubblica, le stragi e la mafia. Problemi spinosi, problemi che richiedono palle, sacrificio e, talvolta, il tanto temuto suicidio politico. Non si può piacere a tutti: se si decide per il Paese, qualcuno sarà sempre scontento. Ma se si vuole cambiare, l’unico vero cambiamento è capire che perdere la propria poltrona è il vero sacrificio che il politico deve fare per portare avanti un ideale.
Giunge Tangentopoli, i partiti svaniscono, rimangono le stesse persone, avvoltoi delle macerie della Prima Repubblica. Nessuno si è mai chiesto perchè ad alcuni è stato permesso di perdurare nonostante fossero conniventi d’un sistema? Ora ce lo chiederemo tutti, perchè, come ho già detto, tutti i nodi vengono al pettine. Da vent’anni abbiamo in sella un avventuriero, un imprenditore, un uomo di milano, uno di quelli che “va a laurà” e che a sgomitate riesce a diventare qualcuno. Siamo caduti in basso, davvero in basso. Neanche un tempo volavamo laddove le aquile osservano i nostri umani destini, ma adesso che abbiam toccato terra abbiamo iniziato a scavare senza sosta. Non ci accontentiamo noi.
Del resto basta qualche donna svestita, qualche programma demenziale e telegiornali e giornali asserviti per renderci contenti. Il sale della vita è quello: una scatoletta luminosa che ci dice come comportarci, quali modelli seguire, che tipo di società vogliamo. Disgustoso. Sai cos’è? Tutti noi, solo noi siamo i colpevoli. Noi che ci lasciamo abbindolare come una bimbetta dal pedofilo con la caramella, lasciamo che stuprino la nostra immaginazione, la nostra fantasia, che usino i nostri ideali come bersaglio d’insulti vomitati in modo talmente subdolo che noi ne ridiamo. Apriamo gli occhi, vi prego, apriamoli! La mia non è più una battaglia, né una protesta, né un solida argomentazione politica. La mia è una preghiera. E la preghiera dice semplicemente: “Rialziamo la testa prima di appiattirci sull’ultimo gradino della scala evolutiva dell’uomo occidentale: l’assuefazione”.

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Prima pioggia d’Aprile

Quando sta per piovere lo senti, te ne accorgi. Gusti sulla punta del palato il profumo dell’aria densa d’umidità. Attendi. Quando il cielo diviene grigio come le nostre città, capisci che acqua scrosciante sta per ticchettare sui nostri vetri. Passa il vento con una dolce carezza e chiudi gli occhi. Gli steli d’erba gioiscono frusciando, li puoi ascoltare. I primi boccioli primaverili si schiudono sorridenti, le prime gocce cadono lente, quasi non avessero fretta. Tloc, sulla terra asciutta. Tloc, sulle prime foglie verdi d’Aprile. Tloc, sui vetri. Entri in macchina, vuoi guidare sotto la pioggia. Sì, puoi farlo. Vai lento, osservi i pochi passanti guardare in alto e mormorare: “Toh, è il cielo quello!” per osservare poi in silenzio le nuvole cariche. Alcuni corrono a casa, pochi si fermano in effetti. Hanno fretta. Vedi due fari davanti a te, poi l’auto sterza, non riconosci il conducente. Come potresti? Conosci così poche persone lungo la strada. Gli alberi si piegano, cantano coi loro ramoscelli scossi dalla brezza la venuta dell’acqua. Solo tu li guardi, pare uno spettacolo nuovo. Li osservi, rallenti, qualcuno ti avverte d’andare più svelto, chiedi scusa e acceleri. Le prime gocce aumentano, azioni i tergicristalli e ne ascolti il suono: ta tlak ta tlak. Vedi altri fari, qualcuno corre verso casa, tu non hai fretta. Sterzi ancora, percorri una strada che non prendevi da tanto tempo; non ha nulla di particolare: non la prendevi da tanto tempo. Torni verso casa, l’inconfondibile suono delle gomme sull’asfalto bagnato; sempre lo stesso, quel suono non cambia. Il vento aumenta, le fronde si piegano fruscianti e la pioggia scorre in lunghi rivoli sul tuo finestrino. Accosti, scendi, guardi il cielo. Hai freddo: non è ancora estate. Ma il tocco delle gocce è soffice, ti accarezza in silenzio, non dà spiegazioni del perchè lo fa. Il cielo s’incupisce, lo scroscio è violento. Torni a casa in silenzio gustando la prima pioggia d’Aprile.

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Lettere politiche, capitolo secondo

C’è una frase del Foscolo che mi colpisce, Ultime lettere di Jacopo Ortis. Sono le prime righe: sono troppo pigro per andarne a cercare un’altra all’interno del libro (non pensare che non l’abbia letto; è solo che si tratta della prima frase che mi è capitata sott’occhio). “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, se pure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.”. E’ il momento in cui Jacopo Ortis fugge sui Monti Euganei, subito dopo la pace di Campoformio (1797), e da lì inizia la sua lunga e struggente corrispondenza epistolare. Una frase azzeccata per tempi come questi.
La politica, come ogni altra attività, ha un prezzo. A volte quel prezzo è la vita, o la prigione; allora è eroismo. A volte quel prezzo è la propria coscienza, la propria anima. A volte è la semplice prostituzione intellettuale in cui si viene indotti. Ho sempre creduto che la politica non fosse altro che una gioiosa arena di discussione e dibattito, un ritrovo intellettuale in cui si cercano le soluzioni a problemi comuni o gli atti pratici a idee geniali. Povero illuso, dirai, e avresti ragione. Chi ancora crede in questo tipo di politica è un illuso. Non è colpa sua; l’importante è continuare ad esserlo. Folle di speranza nel cambiamento, non m’accorgo come vengono plagiati i miei pensieri in un’altra direzione. E resistere diviene l’unica parola saggia da dirsi dinnanzi allo specchio.

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